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La marea del silenzio
Capitolo 12
La vecchia casa di riposo di Monteriva si ergeva in cima a un’altura, circondata da una vegetazione incolta che ne aveva quasi inghiottito il perimetro. I vetri rotti delle finestre riflettevano la luce grigia del pomeriggio, e la cancellata arrugginita, la stessa vista nella fotografia, cigolava a ogni soffio di vento.
«È da qui che è stata scattata quella foto,» mormorò Elisa, osservando l’inquadratura. «Guarda l’edera, è la stessa che cresce sul muro dietro Galli e quell’uomo.»
Matteo annuì, poi spinse piano il cancello. Non era chiuso a chiave. Il cigolio si disperse nel silenzio che avvolgeva la collina.
Avanzarono lungo il vialetto invaso dalle erbacce. Le finestre del piano terra erano murate, ma una porticina laterale, probabilmente usata dal personale, era socchiusa. Matteo la spinse con cautela.
Dentro, l’odore era di muffa, disinfettante secco e legno marcio. Camminarono tra vecchie sedie a rotelle, letti sfondati, armadietti arrugginiti. Il tempo aveva trasformato il luogo in uno scenario sgradevole, ma non del tutto abbandonato. C’erano impronte recenti nella polvere.
«Guarda questo,» disse Elisa, accovacciandosi davanti a un vecchio quadro elettrico. Le luci di alcune stanze erano ancora funzionanti. Qualcuno doveva aver riallacciato l’elettricità. Di recente.
Scendendo al piano seminterrato, trovarono una serie di stanze blindate da porte in ferro. Alcune erano chiuse, altre aperte. In una di esse, una fila di letti con cinghie di contenimento, come in un ospedale psichiatrico. Ma non c’erano cartelle cliniche, né strumenti medici. Solo vecchie coperte, catene spezzate, e un raccoglitore con una sigla ripetuta: "A.R.C.A."
«Cos’è A.R.C.A.?» sussurrò Matteo, sfiorando le lettere sbiadite.
«Un nome in codice? Un acronimo? Potrebbe essere la sigla dell’organizzazione,» ipotizzò Elisa. Prese il raccoglitore e lo aprì. All’interno, documenti logistici: date, arrivi, codici identificativi, firme.
«Sembra… un registro dei trasferimenti,» disse. «Guarda, alcuni dei nomi li abbiamo già visti nel fascicolo di Vernazza.»
All’improvviso, un rumore metallico. Forse una porta che si chiudeva. Qualcuno era lì. Si appiattirono contro il muro. Passi lenti, misurati. Poi una voce maschile, appena udibile: «Troveranno solo polvere e fantasmi.»
I passi si allontanarono. Elisa trattenne il fiato. Solo quando furono sicuri che non ci fosse più nessuno, uscirono dalla stanza.
Nel corridoio, Matteo notò una porta diversa dalle altre: più recente, con una maniglia lucida e una serratura elettronica a combinazione numerica. Lo schermo lampeggiava in attesa. Qualcuno l’aveva impostata, ma non sembrava ci fosse alcun allarme collegato.
«Niente da fare,» disse Matteo. «Serve un codice.»
Elisa guardò la tastiera, poi il cartoncino ingiallito infilato sotto la fessura del telaio. Lo prese con due dita: era un vecchio biglietto da visita, appartenuto a un medico della struttura.
Sul retro, tracciato con una penna blu, c’era un numero:
1982.
«Forse un anno di nascita?» ipotizzò Matteo.
Elisa fece spallucce. «Tentiamo.»
Digitò lentamente: 1-9-8-2.
Errore.
Matteo sospirò. Poi notò qualcosa sul muro accanto alla porta: un vecchio orologio a muro, rotto. Le lancette ferme sulle 10:24.
«Aspetta...»
Indicò l’orologio. Elisa rise: «Speriamo non fosse solo in ritardo.»
Matteo digitò: 1-0-2-4.
Un bip. La serratura scattò. La porta si aprì lentamente.
Elisa lo guardò sorpresa. «Davvero hai indovinato grazie all’orologio?»
Matteo si strinse nelle spalle. «O magari qualcuno qui dentro era un fan di... coincidenze teatrali.»
All’interno, una piccola stanza adibita probabilmente a ufficio. Niente polvere, a differenza del resto dell’edificio. Un segno chiaro: quella stanza era stata usata di recente.
Sul tavolo, un vecchio portadocumenti, vuoto. Ma Matteo si avvicinò al cestino della carta. Infilò i guanti che portava sempre con sé e frugò. Trovò un foglio strappato in più pezzi. Elisa lo aiutò a ricomporlo.
Era una lista manoscritta. I nomi non erano completi, ma le iniziali sì: D.G., D. L., G.R.. Accanto, delle cifre. Alcune alte, seguite da date.
«Sembrano donazioni,» disse Elisa a bassa voce. «Ma queste… non sono benefattori.»
Sotto, una riga in penna diversa, forse aggiunta dopo:
“Tutto si regge sul silenzio.”
Matteo indicò le iniziali. «D.G. potrebbe essere Don Galli. D. L. Don Luciano. G.R… Giulio Riva?»
Elisa scosse la testa, interdetta. «È il padre di Anna… cosa c’entra lui?»
La stanza non conteneva altro. Ma accanto al cestino, Matteo trovò un mazzo di chiavi numerate. Una di esse portava inciso “C.R.”. Sapeva cosa significava: “Centro Ricovero”.
La stanza sembrava piccola, ma in realtà era un passaggio. Elisa e Matteo si trovarono in un ambiente lungo e stretto, pareti foderate da armadi metallici con ante scorrevoli. Ogni armadio aveva un numero. Sembrava una sorta di archivio privato. E lì, finalmente, iniziarono a vedere la struttura della rete.
Alcuni fascicoli erano ordinati con cura inquietante. Ogni raccoglitore riportava una sigla e un numero: S.P.-23, T.N.-11, R.A.-30. Dentro, fotocopie di carte d’identità, lettere mediche, relazioni psicologiche. Alcune erano datate fino a vent'anni prima. Tutti casi di persone scomparse o ricoverate temporaneamente nella casa di riposo. Molti erano minorenni. Alcuni avevano nomi stranamente familiari.
«Qui c’è Sofia,» disse Matteo, estraendo un dossier. «E qui… Anna Riva. Hanno fascicoli anche su di loro.»
«Ma non sono pazienti...»
«No. Sono testimoni. O forse semplicemente... scomodi.»
Elisa si avvicinò a una parete con delle cassette in legno. Ne aprì una a caso. Dentro c’erano fotografie. Una processione notturna, volti illuminati da fiaccole. E poi uomini in abiti talari. Alcuni con il volto nitido. Uno era Don Luciano. Un altro... somigliava a un giovane Don Galli. Sul retro delle immagini, annotazioni: “Iniziazione – Livello II”, “Giuramento – proprietà”.
«Proprietà?» mormorò Elisa. «Come si può usare una parola così parlando di persone?»
Matteo estrasse da una cartelletta un foglio con un timbro notarile. Era un contratto, intestato a una fondazione ecclesiastica. Oggetto del contratto: “donazione irrevocabile a scopo caritatevole”. Beneficiari: centro accoglienza per giovani a rischio in Romania, filiale di… Monteriva.
«Ecco dove vanno le persone scomparse,» disse Matteo. «Via. In strutture fuori dal paese. Donazioni, estorsioni, silenzi… il culto è solo la copertura. Questo è traffico di esseri umani. Internazionale.»
Elisa rimase in silenzio. Non sapeva se piangere, urlare, o distruggere tutto.
Dietro le vecchie cartelle impolverate e un armadio metallico mezzo arrugginito, Matteo scorse una scatola di cartone malridotta, chiusa con un nastro adesivo logoro. Non sembrava affatto parte dell’archivio ordinato che avevano appena esplorato. La sollevò con cautela, l’appoggiò sul tavolo, e sollevò il coperchio.
All’interno, un mucchio di lettere sgualcite, alcune infilate in buste mai spedite, altre lasciate aperte, piegate con cura. Ogni foglio raccontava una storia, una voce spezzata dal dolore.
«Non è possibile...», mormorò Elisa, sfiorando la carta con le dita. «Sono... sono lettere dei rapiti.»
«Ma perché non le hanno distrutte?» chiese Matteo, incredulo.
Elisa rimase in silenzio per un momento, poi guardò attorno, agli scaffali polverosi, all’aria stantia della stanza. «Forse chi gestiva questo posto pensava che qui non ci sarebbe mai arrivato nessuno. Forse... le hanno semplicemente dimenticate.»
«Oppure non le hanno considerate una minaccia. Parole senza valore legale, scritte nel panico, nella confusione.»
Elisa prese una lettera a caso, l’aprì con cautela. La calligrafia era incerta, tremolante. Gli occhi le corsero sulle righe, finché un nome non le fece trattenere il fiato.
«Matteo… leggi qui.»
Lui si avvicinò. Una frase spiccava tra tutte:
“Mi hanno detto che presto sarò trasferita. Parlano di un posto sicuro vicino alla costa. Un certo Don Luciano si occuperà di noi. Non so se credergli.”
Si guardarono negli occhi.
«Don Luciano...» sussurrò Matteo. «È ancora in attività. E da quello che sappiamo, è uno dei pochi che ha accesso alle proprietà della vecchia canonica.»
«Esatto. Dobbiamo scoprire dove si trova quel posto sulla costa.»
Fu in quel momento che sentirono il suono di una porta che si chiudeva dall’esterno.
Rimasero immobili, nella penombra improvvisa.
«Non siamo più soli,» sussurrò Elisa.
Il buio era quasi completo, il sole era ormai calato quasi del tutto. Solo una spia rossa sul tastierino della serratura indicava che la porta era stata chiusa dall’esterno. Elisa e Matteo si fissarono per un istante, immobili, poi lui accese la torcia del cellulare.
«Qualcuno sapeva che saremmo venuti qui.» La voce di Elisa era bassa, controllata, ma dentro ribolliva.
«Oppure ci ha seguiti.» Matteo si avvicinò alla porta. Provò ad aprirla. Bloccata.
La torcia illuminò le pareti. Niente finestre, niente prese d’aria. Solo archivio e cemento.
«Dobbiamo trovare un altro modo per uscire.» Elisa stava già frugando tra gli scaffali. «Se nascondi materiale come questo, magari hai anche una via di fuga.»
Matteo stava osservando una parete sul retro dello scantinato, dove l’umidità aveva sollevato ampie porzioni d’intonaco. Qualcosa non tornava. Sulla vecchia piantina, che aveva studiato prima prima di recarsi alla vecchia casa di riposo, risultava un’uscita secondaria, una porta per il personale di servizio, ma in quel punto sembrava esserci solo muro.
«Qui ci dev’essere qualcosa,» disse, sfiorando i bordi irregolari con le dita. «Guarda com’è diverso questo tratto. Mattoni più nuovi, malta recente.»
Elisa fece luce col telefono. Matteo picchiettò con le nocche: il suono era sordo, ma cambiava in un punto, più vuoto.
Elisa si accovacciò. Ai piedi della parete c’era una griglia di aerazione metallica, fissata con viti. Senza dire una parola, Matteo prese il coltellino multiuso dalla tasca e cominciò a svitare.
Tolsero la griglia, e subito si avvertì una corrente d’aria fredda. Dietro, un tunnel stretto, probabilmente un vecchio condotto di servizio.
«Non sarà comodo, ma è meglio che restare intrappolati.»
Si infilarono nel passaggio. Strisciarono per qualche metro nel buio, tra ragnatele e un odore terribile, finché non raggiunsero una botola. Dall’altra parte filtrava una lieve luce. Con uno sforzo, Matteo la spinse: si aprì con uno schiocco deciso.
Sbucarono in un capanno abbandonato, tra rovi e lastre di lamiera. Quando si voltarono, la casa di riposo era visibile in lontananza, cupa e silenziosa sotto il cielo grigio.