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La marea del silenzio

Capitolo 15

Il taccuino era ora sul tavolo della cucina di Matteo. La luce calda della lampada ne illuminava le pagine, mentre fuori la città si avvolgeva in un silenzio inquieto. Elisa stava passando in rassegna ogni foglio con la meticolosità di un chirurgo, mentre Matteo segnava su un foglio a parte nomi, date e luoghi.

«Guarda qui» disse lei, girando una foto. Sul retro c’era una data e un luogo: Istituto La Selva – 12 marzo. «È la stessa data di una donazione anonima registrata nei documenti della casa di riposo.»

Matteo si massaggiò le tempie. «E la Selva non è mai venuta fuori per caso. In ogni passaggio, in ogni documento, c’è sempre un collegamento. Non è solo una struttura psichiatrica… è un nodo centrale.»

Elisa indicò un altro dettaglio: una foto sgranata di Davide Salvi che parlava con un uomo alto, con un cappotto lungo, sul molo. Il volto dell’uomo era in ombra, ma le mani erano ben visibili: sottili, con un anello vistoso alla mano destra. «Questo non è un pescatore» mormorò.

Matteo riconobbe quell’anello. L’aveva visto nella foto recuperata a Monteriva, tra i documenti sequestrati a Maltoni. Apparteneva a Giovanni Marini.

Il filo cominciava a tendersi:

Maltoni, morto nel suo ufficio, collegato a Marini.

Marini, in contatto con Davide.

Davide, su una lista insieme a nomi di poliziotti e uomini della curia.

E, in mezzo, l’Istituto La Selva.

«Se Davide è vivo, potrebbe essere l’unico a dirci cosa succede davvero alla Selva» disse Matteo.

Elisa chiuse il taccuino. «Dobbiamo trovarlo prima che lo facciano sparire. E se questo significa entrare di nuovo all’istituto, lo faremo.»

Un rumore proveniente dalla strada li interruppe. Una macchina passò lenta davanti alla finestra, i fari che si soffermarono un attimo di troppo sulla facciata. Poi accelerò, scomparendo all’angolo.

Matteo si alzò e spense la luce. «Non siamo noi soli a mettere insieme i pezzi. Qualcuno ci sta seguendo.»

Elisa lo fissò. «Allora dobbiamo correre più veloci di loro.»

Il vento di Monteriva soffiava con la solita ostinazione, scompigliando i pensieri di Elisa mentre lei e Matteo rientravano in auto. Il fascicolo trovato all’Istituto La Selva pesava nella borsa più di quanto le sue dimensioni lasciassero intendere. Non era solo carta: era un filo teso, pronto a condurli verso la verità… o a strangolarli.

Sul sedile posteriore, tra le cartelle e le fotografie, c’era un vecchio quaderno unto di salsedine. Matteo l’aveva notato infilato tra le pagine del fascicolo su Lucia Maltoni. La calligrafia incerta e il lessico da uomo di mare non lasciavano dubbi: apparteneva a Guido Sorrentino.

Sfogliando quelle pagine, i due lessero di incontri notturni sul molo, di pacchi consegnati e di somme in contanti passate di mano. Ma un dettaglio li fece fermare: un nome ripetuto più volte, “Davide S.”, con date che combaciavano con i giorni precedenti la morte di Francesco Maltoni.

«Vuoi dire che il ragazzo sapeva qualcosa?» mormorò Matteo, stringendo la penna che aveva usato per annotare i collegamenti.

Elisa non rispose subito. Un lampo di intuizione le attraversò la mente: se Davide era stato lì quelle sere, poteva aver visto chi incontrava Maltoni e forse anche gli altri membri della rete. Ma il quaderno accennava anche a un “viaggio” mai spiegato, con un biglietto numerato e un timbro di porto che non apparteneva a Monteriva.

Mentre ragionavano, il telefono di Elisa squillò. Una voce roca e agitata sibilò all’altro capo:
«Se cercate Davide, muovetevi. Non siete gli unici a volerlo trovare.»

La voce all’altro capo aveva già riattaccato quando Elisa e Matteo si guardarono negli occhi. Non servì dire nulla: entrambi sapevano che il tempo era contro di loro.

«Se Davide è davvero la chiave, non possiamo lasciarlo sparire,» disse Matteo, già accendendo il motore.

Il quaderno di Sorrentino indicava che il ragazzo trascorreva spesso le notti nei dintorni dei vecchi capannoni del porto, dove le reti da pesca marcivano all’aria e il vento portava odore di ruggine. Era lì che decisero di iniziare.

La strada verso il molo era quasi deserta. Solo qualche lampione tremolante rischiarava il buio e, in lontananza, le sagome di due uomini che parlavano a voce bassa, poi si dileguarono in un vicolo. Matteo frenò poco prima di arrivare alla banchina, spegnendo i fari.

Fu Elisa a notarlo per prima: una figura snella, giubbotto consunto, che frugava in un cassonetto come a cercare qualcosa che non voleva fosse visto.

«Davide!» chiamò a bassa voce, avvicinandosi con cautela.

Il ragazzo trasalì, poi scattò in direzione opposta. Non correva verso il mare, ma verso l’interno del porto, verso i capannoni. Matteo lo seguì, Elisa dietro di lui, finché Davide si infilò in un’apertura laterale, scomparendo nel buio.

Dentro, il rumore del vento lasciò posto a un silenzio ovattato, interrotto solo da passi leggeri. Poi una voce, la stessa che aveva avvertito Elisa al telefono, si levò dall’ombra:
«Siete in ritardo. E adesso non siamo più soli.»

Un rumore di passi pesanti echeggiò alle loro spalle.

Il respiro di Elisa si fece corto. Il buio dei capannoni era fitto, l’odore di catrame e legno umido si mischiava a quello acre di metallo arrugginito. Davide non si vedeva più, ma la sua presenza era palpabile, come se li osservasse da qualche angolo invisibile.

Matteo fece per accendere la torcia del telefono, ma una voce, tesa e imperiosa, lo fermò:
«Non farlo. Vi vedrebbero.»

Il rumore di passi alle spalle si fece più vicino, questa volta accompagnato da un suono metallico, come di una catena trascinata a terra. Elisa e Matteo si scambiarono uno sguardo rapido: qualcuno stava chiudendo l’uscita principale.

Un fruscio sopra le loro teste li fece alzare lo sguardo: una passerella di legno correva a tre metri da terra, e per un istante parve che una sagoma si muovesse lungo di essa, ma la luce tremolante di un lampione esterno creò solo ombre mutevoli.

«Davide, dove sei?» sussurrò Elisa, avanzando lentamente.

Nessuna risposta. Solo il suono di passi leggeri, ora davanti, ora dietro, ora di lato. Un gioco di echi che disorientava.

Poi, un colpo secco. Un lucchetto cadde a terra, rotolando fino ai piedi di Matteo. Lo raccolse istintivamente, ma quando rialzò lo sguardo, una porta laterale si era socchiusa.

Dall’interno proveniva una luce fioca e intermittente… e una voce appena percettibile, come se stesse leggendo un nome.

Elisa si avvicinò alla porta, trattenendo il respiro. La luce all’interno proveniva da una vecchia lampada da tavolo, piazzata su una cassa di legno. La figura curva che vi sedeva accanto teneva in mano un foglio sgualcito e lo leggeva a voce bassa, scandendo ogni parola come se fosse un rituale.

«Giovanni Marini… Alessandro Greco… Guido Sorrentino…»

I nomi si susseguivano, alcuni noti, altri ignoti, ma per Elisa e Matteo erano un pugno allo stomaco: erano tutti nomi incontrati nelle indagini, legati a tasselli sparsi della rete che avevano faticosamente ricostruito.

Davide era lì, le mani tremanti, lo sguardo fisso sul foglio. Non sembrava nemmeno accorgersi di loro.

«Davide… dove hai preso quella lista?» chiese Matteo, con voce bassa.

Il ragazzo alzò gli occhi, spaesato, quasi intimorito. «Non… non lo so. Era nella cassetta sotto al pontile. Io… io non capisco. Ma so che chi è qui fuori… non vuole che la leggiate.»

Un tonfo sordo li fece voltare di colpo: la porta alle loro spalle si era chiusa, e dalla parte opposta della stanza, un’altra serratura stava scattando.

Il rumore della serratura riecheggiò per qualche secondo, poi tornò un silenzio innaturale.
Elisa fece un passo indietro verso la porta, provandola: niente, bloccata. Matteo si mosse verso l’altra uscita, ma anche lì trovò solo il suono secco del metallo chiuso.

Davide serrò il foglio tra le mani, quasi a temere che qualcuno potesse strapparglielo via. «Non sono stato io… ve lo giuro. Io non…» balbettava, con il respiro corto.

Un fruscio provenne da dietro una pila di casse. Elisa scambiò un’occhiata con Matteo, poi lentamente si avvicinarono. Una figura sbucò dall’ombra, i tratti del viso coperti da un cappuccio scuro.
«Quel foglio…» disse la voce roca, «…non doveva arrivare a voi.»

Matteo si piazzò di fronte, cercando di fargli scudo. «Perché? Cosa lega tutti quei nomi?»

Un attimo di esitazione, poi la risposta, quasi sussurrata:
«Sono i beneficiari. Tutti, in modi diversi, hanno preso qualcosa… soldi, protezioni, silenzi. Ma se la lista è finita qui, vuol dire che qualcuno dentro la rete vi vuole far capire dove guardare.»

Il misterioso individuo si mosse verso la porta e, senza voltarsi, infilò una chiave nella serratura. «Vi conviene andarvene. Stanotte… non siete gli unici a cercare questa lista.»

Con un clic secco, la porta si aprì.