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La marea del silenzio

Capitolo 19

Il cielo sopra Monteriva era di un grigio spento, attraversato da gabbiani che stridevano come se avvertissero un cambiamento imminente. Elisa e Matteo camminavano lungo la banchina, le scarpe scricchiolavano contro il legno umido. Il mare, agitato da un vento teso, schiumava contro le barche ormeggiate.

Erano tornati al porto perché qualcosa non tornava. L’allarme della sera precedente — il presunto incendio su un peschereccio, le motovedette accorse, i controlli improvvisi — era stato solo il pretesto per svuotare l’area attorno al vecchio magazzino. Quello stesso magazzino che, fino a due notti prima, era servito da copertura per il passaggio di persone e denaro.

«Eppure nessuno ha visto nulla,» disse Matteo, tenendo il passo accanto a Elisa. «Tutti parlano di fumo, ma nessuno ha saputo dire da dove venisse.»

«Perché non c’era fumo,» rispose lei. «Era tutto orchestrato. E il tempismo perfetto.»
Scorse un gruppo di pescatori che si scaldava il caffè al chiosco in fondo alla banchina. Tra loro riconobbe Guido Sorrentino, l’uomo che li aveva indirizzati verso la pista giusta. Quando li vide, abbassò subito lo sguardo.

Elisa gli si avvicinò. «Guido, c’è qualcos’altro che non ci hai detto, vero?»
L’uomo esitò. Le sue mani callose strinsero il bicchiere di plastica come per scaldarsi. «Io… non volevo immischiarmi, commissaria. Ma se davvero volete capire, dovete sapere che qui, ieri sera, c’erano uomini che non si erano mai visti. Forestieri. Uno di loro parlava con Greco.»

Matteo si scambiò uno sguardo rapido con Elisa.
«Alessandro Greco?»
Guido annuì. «Proprio lui. Era qui, dietro le casse. Quando è scattato l’allarme, li ho visti sparire assieme, verso la zona del deposito. Nessuno li ha più rivisti da allora.»

Elisa rimase in silenzio per un lungo momento. Tutto cominciava a combaciare: Greco, Marini, Maltoni. Le imprese di facciata, i fondi per il restauro della chiesa, i flussi di denaro scomparsi nei conti esteri. La rete non era composta solo da criminali di basso livello, ma da uomini con potere e radici profonde.

«Matteo,» disse infine, «se Greco era lì ieri notte, è possibile che sia lui ad aver fatto sparire Vernazza. O almeno a sapere chi l’ha fatto.»

L’ispettore annuì, accendendo la torcia e dirigendosi verso i moli più interni. «Allora iniziamo da qui. Se l’allarme è servito a liberare il rifugio, forse c’è ancora qualcosa che non hanno portato via.»

Raggiunsero un magazzino di lamiera. L’aria all’interno odorava di gasolio e muffa. Il pavimento, coperto da impronte di stivali, era stato spazzato di recente, ma non abbastanza da cancellare tutto. Matteo si chinò: un lembo di carta, intrappolato sotto una cassetta di legno, portava il timbro della Società Servizi Marini Greco S.r.l. e una firma familiare: Francesco Maltoni.

Elisa trattenne il fiato. «Ecco perché l’hanno ucciso. Aveva cominciato a parlare. O peggio — a conservare prove.»

Un rumore improvviso li fece voltare. Passi rapidi sul pavimento metallico, poi una voce roca alle loro spalle:
«Dovete andarvene. Adesso.»

Guido Sorrentino era tornato. Il suo volto era teso, segnato da paura autentica.
«Hanno capito che qualcuno ha parlato. E non si fermeranno più.»

Il magazzino era un alveare di metallo e ombre; ogni cassa, ogni pilastro poteva nascondere un uomo. Quando la voce roca li raggiunse — «Dovete andarvene. Adesso.» — fu come se una corrente elettrica avesse attraversato l’aria. Elisa e Matteo si voltarono di scatto. Guido aveva il volto tirato, la bocca serrata; poi indicò una porta laterale, quella che dava sul piazzale retrostante.

«Sono usciti da lì,» sussurrò, quasi senza fiato. «Due, poi altri. Hanno preso dei pacchi—» non riuscì a finire.

Matteo non ci pensò. «Tu resta qui e resta in copertura,» ordinò, guardandolo con la voce che non ammetteva obiezioni. Poi fece segno a Elisa: «Io vado da quella parte, tu copri l’uscita principale.»

La notte inghiottì i loro passi. Il piazzale retrostante era meno illuminato, un labirinto di cassoni e cataste di legno. Un rumore metallico dietro una fila di pallets: qualcuno stava caricando in fretta. Elisa scattò in avanti, le torce puntate e il respiro corto.

Un uomo emerse dall’ombra, un giubbotto scuro, passo veloce. Vide Elisa, tentennò, poi accelerò. Lei lo inseguì, schivando un cassone. Si sentì un colpo alle sue spalle: un altro uomo aveva cercato di bloccare Matteo alla prima uscita. Matteo lo eluse, la sciarpa gli sbatté sul viso ma non rallentò. I due correvano su e giù per il piazzale, tra lamiere e ganci, l’eco dei loro passi rimbalzava come un tamburo.

Elisa riuscì a recuperare un vantaggio quando il fuggitivo inciampò su una catasta mal impilata. Lo afferrò per il collo del giubbotto; l’uomo reagì colpendola con un pugno. Non era un gigante, ma sapeva combattere; Elisa lo sentì sulle braccia, nella schiena, ma non mollò. Con una torsione lo disarmò, lo stese e lo tenne con il ginocchio sulla schiena, mentre il respiro le usciva in sbuffi corti.

«Chi sei? Per chi lavori?» chiese con voce dura.

L’uomo tossì e cercò di parlare tra i denti. «Greco… Greco non» — la parola uscì strozzata — «Marini… ordine… porto.»
Poi, d’improvviso, un colpo di pistola rimbalzò sulla lamiera lontana; qualcuno stava sparando in alto per intimidire. Matteo, che era riuscito a bloccare l’altro assalitore, gridò: «Al riparo!»

Nel frastuono, dall’ombra arrivò un altro rumore: una motocicletta che si allontanava, fari bassi, due silhouette che si fondevano nella notte. Elisa guardò il corpo sotto di lei: l’uomo aveva in tasca una busta di plastica con dentro documenti arrotolati e, infilata tra le pieghe, una ricevuta con il logo della Società Servizi Marini Greco S.r.l. e un biglietto del porto con timbro della serata precedente.

«Non l’hai vista? Non l’hai vista la barca?» rantolò l’uomo, poi sentì il pugno di Matteo e tacque.

Elisa lo fissò un attimo: non capiva se stesse cercando di distrarli o se davvero volesse far capire che qualcun altro stava scappando.

Matteo non gli lasciò il tempo di continuare. Un pugno secco, poi lo spinse a terra, bloccandogli le braccia.

«Basta così,» ringhiò. «I tuoi giochetti sono finiti.»

Matteo si avvicinò, respirava veloce. «Prendila,» disse a Elisa, indicando la busta. Si chinò e frugò tra la carta: contratti parziali, una lista di nomi con cifre a fianco, e — qualcosa di più personale — una foto in bianco e nero con Vernazza al centro, scattata di schiena, con un’annotazione a matita: “controllare la scogliera”.

Elisa sentì lo stomaco contrarsi. La foto confermava ciò che sospettavano: Vernazza era stato seguito, i suoi movimenti annotati; qualcuno aveva deliberatamente portato avanti l’azione che quella notte lo avrebbe ucciso.

«Dobbiamo interrogarlo,» disse, guardando Matteo. «E dobbiamo farlo qui, adesso. Se quelli là sono solo corrieri, potremmo ancora risalire ai mandanti.»

Matteo annuì e con calma militare mise le manette al polso tremante dell’uomo che avevano bloccato. «Hai fatto bene a non ucciderlo,» disse sottovoce. «Le cose che trovano i poliziotti non le trovano i fucili. Se resta vivo, forse ci dirà chi era sulla barca.»

Elisa agganciò le manette ai polsi tremanti dell’uomo. «Allora speriamo che abbia voglia di raccontare.»

Dietro di loro, dal largo, si udiva ancora il rombo di motorini che si allontanavano, ma il piazzale non era più vuoto: ombre affaccendate si muovevano in lontananza, forse testimoni, forse complici che valutavano la situazione. Guido, che li aveva seguiti dal chiosco, scostò la mano dalla bocca quasi in un singhiozzo: «Ora sanno che li abbiamo… reagiranno.»

Elisa si voltò verso il prigioniero, gli occhi stretti. «Hai parlato di Marini e Greco. Ora parla anche di Vernazza. Chi ha premuto il grilletto sulla scogliera?»

L’uomo guardò il cielo per un attimo, poi le labbra si mossero, lente: «Un uomo che chiamavano il Castellano. Lavora per Marini. Era con loro quella notte. Non voleva sporcarsi le mani… ma alla fine non si è tirato indietro.»

Le parole cadde come un sasso in acqua calma, creando cerchi che si allargarono fino al bordo del porto. Elisa sentì il peso di un nome nuovo: il Castellano. Un esecutore con soprannome e ruolo. Sapeva che quel nome, se confermato, poteva essere la chiave per inchiodare gli artefici. Ma sapeva anche che pronunciarlo significava mettere un bersaglio sulla propria schiena.

Mentre lo trascinavano il prigioniero verso la luce dei fari dell'auto, dietro di loro il porto sembrava riprendere fiato: un luogo che aveva mentito per anni stava iniziando a sputare la verità, a pezzi e con rabbia.

La luce del bagagliaio si rifletteva sul volto segnato del prigioniero mentre lo sistemavano sul sedile posteriore dell’auto. 

«Non portiamolo in mezzo alla piazza,» disse Elisa scuotendo la testa. «Quadri è... meglio non rischiare. Lo mettiamo nel locale protetto, quello che usiamo per le perquisizioni più delicate. Solo noi due, una registrazione e la scientifica che venga dopo.»

Matteo guidò senza parlare, la strada sembrava infinita; ogni lampione era un occhio che illuminava un passo che poteva essere l’ultimo. Elisa chiamò brevemente Ricci: gli disse che avevano un arresto e che avrebbero proceduto con un interrogatorio immediato, ma non rivelò dettagli. Il tono del procuratore, nell’altro capo, tradiva preoccupazione e fretta: «Fate in fretta. E attenti a chi coinvolgete.»

La stanza utilizzata per gli interrogatori era gelida, le pareti insonorizzate, la sola porta chiusa con due mandate. Lì deposero la busta trovata addosso al corriere: ricevute, la foto di Vernazza, la lista di nomi. Elisa fece scorrere davanti al prigioniero quel che avevano già letto nel magazzino; lui abbassò lo sguardo.

«Il Castellano…» cominciò l’uomo, con un filo di voce. «Lavora per Marini. È lui che coordina i corrieri. Quando c’è da sporcare le mani, lui chiama la gente giusta. Non ama uccidere di persona, ma ordina che una soluzione diventi... definitiva.»

Elisa prese nota, ma voleva altro. «Dov’è ora il Castellano? Dove lo trovate?»

Il prigioniero strinse le labbra, poi scosse la testa. «Non lo saprei dire con precisione. Si muove sempre con due ruote. Ha un garage vicino alle cave vecchie, a nord. È lì che tengono le moto e i mezzi per i trasferimenti. Ma…» gli occhi dell’uomo si spalancarono per un istante, «Vernazza non è morto per caso alla scogliera. Lì lo hanno portato per farlo sembrare un incidente dopo avergli dato un colpo che l’ha stordito. C’era chi osservava: il Castellano e un uomo alto, con un distintivo finto. Lui guardava dalla macchina, ha fatto il gesto e lo abbiamo...»

La parola si spezzò. Elisa scattò in avanti. «Un distintivo finto? Chi?»

L’uomo si voltò verso Matteo, occhi fradici. «Un distintivo blu. Come quelli della municipale. Ma non era un vigile. Era uno che la gente del porto conosce come… ‘il vigile con la sciarpa’ — sempre sul molo quando c’è da coprire qualcosa. Non so il suo vero nome, ma il volto l’ho visto qualche volta. È uno che risponde agli ordini di Marini nei casi più sporchi.»

Elisa provò a incastrare i pezzi: Castellano con le moto, un complice che dava le istituzioni per muoversi senza sospetti, Greco che appariva sul porto la notte dell’allarme. Tutto convergeva.

«Va bene,» disse Elisa infine, contenendo la voce. «Hai fatto ciò che dovevi fare. Potresti collaborare e alleggerire la tua posizione se ci dici chi sono i suoi uomini, dove sono le moto, dove nascondono i documenti.»

«C’è un capannone tra le cave — un basso edificio con porte verdi. Lì tengono parecchi documenti e qualche persona per periodi brevi. E poi… il Castellano ha una madre malata; a volte la porta in paese in una vecchia Fiat per esserci al mattino», confessò l'uomo.

Matteo estrasse il telefono e scattò una foto al prigioniero, poi spense lo schermo. «Dobbiamo muoverci senza fare rumore,» mormorò. «Non possiamo chiamare subito tutta la squadra; qualcuno potrebbe filtrare. Andiamo a prendere le moto, troviamo il garage, sequestriamo, portiamo via chi c’è dentro. Se Castellano si accorge che abbiamo preso i mezzi, è finita.»

Elisa fece il conto dei rischi in pochi secondi. Le persone scomparse — alcune vive, altre no — potevano essere ancora in quei luoghi secondari. Ogni ora che passava era un’ora che la rete poteva usare per spostare prove e persone.

Decisero per una squadra minima: Elisa, Matteo, Sorrentino come guida perché conosceva i sentieri secondari, e due agenti fidati che non erano mai apparsi nelle foto sequestrate, uomini scelti da Ricci con discrezione. Avrebbero agito all’alba, quando il rumore del paese avrebbe coperto i movimenti e le ombre sarebbero state ancora dalla loro parte.

Prima di uscire, Elisa tornò al tavolo e guardò la foto di Vernazza. «Se riusciamo a mettere le mani su Castellano,» disse, «possiamo ottenere chi ha tirato le fila. E forse, finalmente, scoprire dove sono finiti i vivi.»

L’alba li avrebbe trovati in strada, pieni di nervi e decisione. Sapevano che stavano scavando vicino a un nido di vipere; ma ormai, per Elisa, non c’era altro da fare se non continuare a mordere la verità, fino all’osso.

Il cielo era ancora grigio quando Elisa entrò nel suo ufficio. Non si era neppure tolta la giacca: aveva solo bisogno di passare a prendere il fascicolo prima che Matteo arrivasse. La luce fredda del mattino filtrava attraverso le persiane dell’ufficio di Elisa, disegnando strisce pallide sul pavimento. Restava ferma davanti alla lavagna piena di nomi, date e frecce, come se aspettasse che le linee tracciate le restituissero finalmente un senso.

Matteo entrò senza bussare, con l’aria di chi non aveva chiuso occhio.
«Hai visto le notizie?», chiese, lanciando il giornale sulla scrivania.

In prima pagina, il titolo in neretto:
“Esplosione al porto: ipotesi sabotaggio. Indagini in corso.”

Elisa lo fissò un istante, poi voltò la pagina. L’articolo parlava di un container incendiato nella notte, poco distante dalla banchina dove attraccavano i pescherecci. Nessun ferito, ma un’area intera del porto era stata isolata.

«Un sabotaggio, guarda caso proprio oggi.»
Matteo annuì. «E guarda caso, i camion che facevano da copertura al deposito della rete criminale passavano di lì. Ora tutti i reparti della mobile e della scientifica sono stati dirottati al porto.»

Elisa capì subito. «Quindi hanno guadagnato tempo. Hanno attirato l’attenzione dell’indagine ufficiale lontano da loro.»
«Esatto. Ma potrebbe essere la nostra occasione.»

Si avvicinò alla lavagna e tracciò una nuova linea rossa, collegando il punto segnato “porto” con il “rifugio” cerchiato in basso.
«Se la sorveglianza si è spostata, significa che stanno cercando di ripulire. Dobbiamo andarci subito, prima che qualcuno faccia sparire le prove o scompaia di nuovo.»

Elisa strinse la cartella al petto, mentre Matteo digitava rapidamente sul telefono. «Avviso Ricci», disse, «dobbiamo andare subito al porto.»
Lei annuì. «Allora ci muoviamo solo noi due. Non c’è tempo da perdere.»
Elisa fissò il cellulare, gli occhi puntati sulla mappa satellitare che un tecnico della squadra aveva appena inviato.
«Guarda qui,» disse, ingrandendo l’immagine. «Questo magazzino al porto... è intestato a una delle società di copertura di Marini. Lo stesso nome che compariva nei documenti trovati al rifugio.»
Matteo si avvicinò, aggrottando la fronte. «Vuoi dire che il rifugio non era che un passaggio intermedio?»
«Esatto. Dal rifugio le persone sparivano nel nulla, ma forse il nulla era il mare. Se il porto era la via d’uscita, allora tutto combacia: i conti offshore, i carichi, le scomparse.»
Ci fu un attimo di silenzio.
«Andiamo a vedere di persona,» concluse Elisa. «Ma stavolta, niente errori.»

Quando lasciarono il commissariato, Monteriva era immersa in un’agitazione innaturale. Le sirene provenienti dal porto si confondevano con le voci dei cronisti accalcati sotto la recinzione, e in ogni angolo della città si parlava solo di “attentato”.
Nessuno immaginava che quell’incidente non fosse un imprevisto, ma una copertura. Le fiamme e il fumo non servivano a distrarre, stavolta, ma a cancellare: a bruciare ciò che restava delle prove. Un incendio “pulito”, capace di cancellare ogni collegamento prima dell’arrivo della scientifica.

«Ti rendi conto che stanno manipolando tutto?» disse Matteo, guardando la città scorrere oltre il finestrino. «Prima i depistaggi nei documenti, poi gli spostamenti di fondi, ora questo. È come se avessero previsto ogni mossa.»
«Non ogni mossa», rispose lei. «Non questa.»

Il fuoco era divampato in pochi minuti, divorava il vecchio capannone vicino al molo. Le sirene dei vigili del fuoco si mescolavano a quelle delle pattuglie, mentre un fumo denso si alzava sopra l’acqua, annerendo il cielo del mattino.

«È il settore che avevamo messo sotto sequestro ieri,» disse Elisa, con la voce tesa. «Ricci aveva fatto catalogare i container in attesa della scientifica.»

Matteo la fissò, incredulo. «Quelli con le etichette numerate?»

Lei annuì lentamente. «Dentro c’erano i materiali che non avevamo ancora analizzato. I registri, le casse rimaste chiuse...»

Un pompiere si avvicinò di corsa, aveva il volto rigato di fuliggine.
«Signora Commissario, le porte erano già spalancate quando siamo arrivati. Qualcuno ha versato del carburante lungo il perimetro. È stato fatto di proposito.»

Matteo serrò i pugni, guardando le fiamme che divoravano le strutture.
«Stanno cancellando le prove,» disse piano. «Qualcuno sapeva che eravamo vicini a qualcosa.»

Elisa abbassò lo sguardo, sentendo il calore che saliva dal molo e il bruciore negli occhi.
«Non stanno coprendo una pista,» mormorò. «La stanno riscrivendo.»

Un nuovo scoppio, il crepitio del fuoco che inghiottiva tutto. Monteriva, davanti a loro, sembrava respirare cenere.