storie, racconti e altro

La marea del silenzio

Capitolo 17

Il mattino dopo, Elisa e Matteo si ritrovarono di nuovo in commissariato. La notte era stata breve e tormentata, eppure entrambi avevano la lucidità di chi ormai vede la meta a portata di mano.

«Dobbiamo stringere il cerchio intorno a Giovanni Marini,» disse Elisa, posando i fascicoli sul tavolo. «Sorrentino ci ha dato un nome, e adesso tocca a noi raccogliere le prove.»

Matteo si passò una mano tra i capelli. «Il problema è che Marini non si muove mai in prima persona. Ha sempre qualcuno che sporca le mani al posto suo. Quindi dobbiamo capire chi.»

Elisa annuì, e aprì il fascicolo delle sparizioni. Fotografie di volti giovani e adulti, uomini e donne, alcune ingiallite dal tempo, altre recenti. «Le persone scomparse. Tutto ruota attorno a loro. Se capiamo la loro sorte, capiamo anche chi eseguiva gli ordini.»

Un bussare discreto alla porta interruppe il silenzio. L’ispettore Quadri entrò, tenendo in mano una busta trasparente. «È arrivata la relazione della scientifica. Ricordate i documenti recuperati dall’ufficio di Maltoni?»

Elisa prese la busta. Dentro c’era una fotografia: un gruppo di uomini davanti a un residence appena inaugurato, anni prima. Tra loro, riconobbe senza difficoltà Giovanni Marini, sorridente accanto a Maltoni e ad Alessandro Greco, l’imprenditore che controllava metà Monteriva.

«Greco,» mormorò Matteo. «Lui è il legame. Uno che costruisce, finanzia, restaura… perfetto per coprire movimenti di denaro e di persone.»

Elisa fissò l’immagine più a lungo. Un dettaglio sullo sfondo attirò la sua attenzione: un’auto con il logo della società di sicurezza dei Maltoni. «Guarda qui. Ecco come si collegano i tasselli: la società di Francesco forniva copertura logistica, i cantieri di Greco servivano da transito, e Marini teneva i fili.»

Matteo serrò la mascella. «E Vernazza? Ha messo il naso dove non doveva, scoprendo i collegamenti tra la società di sicurezza e i conti offshore di Marini. Per questo è stato eliminato.»

Un silenzio teso calò sulla stanza. Elisa posò la foto e disse: «Marini si crede intoccabile. Ma se riusciamo a collegare il denaro sporco alle sparizioni, non potrà più scappare.»

Quadri tossicchiò. «Commissaria, c’è un’altra cosa. Nei documenti compare più volte un certo “rifugio”. Non è chiaro se si tratti di un luogo preciso o di un nome in codice. Ma potrebbe spiegare dove finiscono le persone che non risultano né morte né ritrovate.»

Gli occhi di Elisa si accesero. «Il rifugio. Forse non è solo una parola. Forse è davvero il luogo che stiamo cercando.»

Matteo annuì. «E sarà lì che capiremo se qualcuno è ancora vivo.»

Il silenzio dello studio di Elisa era interrotto solo dal fruscio delle pagine che Matteo stava sfogliando. Le carte, recuperate fino a quel momento, sembravano finalmente cominciare a comporre un disegno riconoscibile.

«Guarda qui» disse lui, spingendo verso di lei un fascicolo con delle mappe topografiche. «Non è solo un terreno agricolo. Vedi questi segni? Sono vecchie strutture sotterranee, abbandonate da decenni. Qui è dove hanno trasferito i fondi. E qui…» batté l’indice sulla carta, «potrebbe esserci il rifugio.»

Elisa lo osservò attentamente. «Un posto isolato, fuori dai circuiti ufficiali, eppure perfetto per tenere al sicuro persone di cui non deve restare traccia. Vernazza ci è arrivato troppo vicino, e Maltoni aveva iniziato a collegare i nomi e le cifre. Per questo li hanno fatti sparire entrambi.»

Si appoggiò allo schienale, serrando la mandibola. «E se davvero è lì che finiscono gli scomparsi, dobbiamo andarci. Non possiamo fermarci alle deduzioni.»

Matteo chiuse il fascicolo, ma non prima di fissare un punto cerchiato in rosso. «La zona è a nord di Monteriva, tra i boschi e le vecchie cave dismesse. Non ci passa più nessuno da anni. Non sarà facile entrarci, ma se c’è un luogo dove la rete nasconde le sue verità, è questo.»

Un lampo di consapevolezza attraversò gli occhi di Elisa. «Allora è lì che andiamo. Ma con cautela. Non voglio che finisca come con Maltoni.»

Per la prima volta, avevano la sensazione netta che il cerchio si stesse chiudendo. Il “rifugio” non era più soltanto un’ipotesi: era la meta verso cui tutto li stava conducendo.

Il procuratore Ricci li ricevette nel suo ufficio con lo sguardo torvo, come se li aspettasse già da ore. Le tapparelle abbassate filtravano una luce incerta, dando alla stanza un’aria pesante.

«Voi due siete matti» esordì, senza giri di parole. «Andare lassù senza rinforzi? È un suicidio. Se avete ragione, non parliamo di ladruncoli di paese: lì ci troverete gente armata, addestrata, che non ha nulla da perdere.»

Matteo si irrigidì. «Allora perché non muoviamo la squadra? Perché non organizziamo un blitz immediato?»

Ricci batté il pugno sulla scrivania. «Perché non ho abbastanza prove! Non posso mandare uomini a rovistare in un rudere abbandonato solo perché voi avete trovato delle mappe e delle lettere. In tribunale ci rideranno in faccia.»

Elisa non distolse lo sguardo. «Se aspettiamo altre prove, rischiamo di non trovarne più. Le persone scomparse… se sono ancora vive, potrebbero essere lì. Non possiamo permetterci di girarci dall’altra parte.»

Il procuratore rimase in silenzio, tormentandosi il labbro con i denti. Alla fine parlò con voce più bassa: «Non vi sto autorizzando. Ma se decidete di muovervi… fate in modo che nessuno vi segua. Non fidatevi di nessuno, nemmeno dentro le forze dell’ordine. Avete visto la foto di Quadri: se lui era già dentro fino al collo, allora significa che la rete ha occhi e orecchie dappertutto.»

Matteo e Elisa si scambiarono un’occhiata rapida, un accordo silenzioso che non aveva bisogno di parole. Stavano andando a infilarsi nella tana del lupo, e questa volta non potevano contare su nessun salvagente.

Uscendo dall’ufficio, Matteo sussurrò: «Abbiamo appena avuto il via libera che non potevamo chiedere?»

Elisa annuì. Ma dentro di sé sapeva che Ricci aveva ragione: da quel momento, ogni passo sarebbe stato sul filo del rasoio.

Partirono all’alba, con zaini, torce e tutto il necessario per il sopralluogo al “rifugio”. L’aria era bassa e fredda; il primo tratto di strada che porta fuori Monteriva era ancora umido per la pioggia della notte precedente. Elisa guidava, Matteo al suo fianco con i pensieri già divisi tra mappe e ipotesi. Nessuno dei due parlò molto: quel silenzio era un’arma, serviva a risparmiare energie e nervi per quello che li aspettava.

Usciti dal paese, la strada si restringeva, tra pini e campi incolti. Elisa rallentò per prendere una curva stretta e, proprio allora, sentì un colpo secco sotto la macchina. Un sobbalzo, un cigolio, poi la spia della pressione. Si fermò sul lato, scese, e la vista la innervosì: la gomma posteriore destra era tagliata, una fenditura netta come fatta con un coltello affilato. Non un forato casuale, ma un sabotaggio.

«Non può essere un caso,» disse Matteo, stringendo le mascelle. Elisa si chinò, tastò la gomma e trovò qualcosa che le confermò il sospetto: un pezzetto di metallo infilato nella carcassa, levigato come se qualcuno l’avesse usato apposta per non lasciare tracce su strada. Non c’erano segni di passaggio di animali, niente che potesse far pensare a una sfortuna. Qualcuno li stava aspettando.

Mentre rovistavano nel bagagliaio alla ricerca del cric, un’auto rallentò sul bordo della carreggiata e si fermò qualche decina di metri più avanti. Dalla portiera anteriore scese un uomo in impermeabile, il volto coperto dal bavero. Si avvicinò senza fretta, le mani in tasca. Elisa e Matteo lo scrutarono, pronti a reagire.

«State bene?» chiese, la voce neutra.

Elisa lo riconobbe in un flash: era un agente della polizia municipale, uno che non avevano mai incrociato direttamente ma di cui avevano visto il distintivo in alcune foto. Al primo pensiero, il sollievo fu immediato — poi arrivò la diffidenza. Ricci aveva appena avvertito di non fidarsi di nessuno.

«Abbiamo una gomma a terra,» rispose lei, tonica. «Può darci una mano?»

L’uomo fece un cenno d’assenso, si tolse il cappello e si avvicinò. Mentre Matteo cominciava a svitare i bulloni, Elisa osservava la figura dall’angolo dell’occhio. C’era qualcosa di troppo composto nei suoi gesti, un modo di tenere il corpo che non coincideva con l’improvvisazione di chi aiuta per caso. Elisa non abbassò la guardia. Notò il sottile luccichio di un anello, sul dito destro: lo stesso tipo di anello che aveva visto in una foto tra i documenti del magazzino. L’istinto le sussurrò: «attenzione».

Finito di cambiare la gomma, l’uomo si fermò un istante, poi disse, come se offrisse solo un’informazione innocente: «C’è stata un’operazione al porto ieri notte. Hanno trovato tracce di carico non registrato. Se andate a nord aspettatevi gente nervosa.» Si voltò, rimise le mani in tasca e ripartì, scomparendo nella curva.

Elisa guardò Matteo; il messaggio era chiaro: qualcuno li stava spingendo a esporre la pista del porto, o stava sondando le loro reazioni. La telefonata al procuratore non ricevette risposta. Quadri non rispondeva. Dalla direzione del porto arrivavano, a tratti, rumori ovattati di motori. Anche il vecchio Sorrentino, cui avevano annunciato via messaggio il piano della mattina, non rispondeva.

Decisero di non tornare indietro né di proseguire dritto: troppa gente poteva aver visto la loro auto ferma, troppi occhi potevano aver annotato il modello e la targa. Scelsero una via di campagna secondaria che costeggiava i boschi indicati sulla mappa: più lenta, più lunga, ma meno visibile. Camminarono accanto alla macchina fino a un casolare abbandonato che conoscevano bene, lo usarono per lasciare l’auto in un punto dove sarebbe stata meno scoperta e tornarono a piedi verso nord.

Quel rallentamento costò loro tempo prezioso. Ad ogni passo Elisa sentiva il peso della frustrazione: erano stati visti, messi in guardia, forse depistati. Ma l’episodio aggiunse un’altra certezza: qualcuno sapeva che sarebbero venuti, qualcuno non voleva che arrivassero al rifugio in fretta e forse sperava che, rallentati, commettessero un errore.

Mentre si muovevano a piedi, la pioggia — leggera fino ad allora — si trasformò in una pioggia più fitta, che lavò via qualche traccia ma rese anche più difficile muoversi: i sentieri si fecero scivolosi, il terreno più impervio. L’orizzonte si chiuse in nuvole grigie e basse. All’improvviso, un rumore di motore si avvicinò, si allontanò e poi il silenzio. Il tempo stava diventando il loro peggior avversario.

Arrivati a una radura che fungeva da punto d’osservazione, si fermarono per parlare. Matteo frugò nelle tasche alla ricerca di un fazzoletto e trovò un minuscolo pezzetto di carta: un ritaglio, sporco, su cui qualcuno aveva scritto «NON ANDATE» con una calligrafia grossolana. Non era una minaccia elaborata. Era un messaggio brutale e diretto: qualcuno li stava attivamente ostacolando.

Elisa lo lesse e rimbalzò gli occhi verso il bosco: «Non ci fermiamo. Questo rallentamento ci ha detto due cose: qualcuno ci teme — quindi siamo vicini alla verità — e qualcuno prova a proteggere il rifugio o a nascondere quello che c’è dentro. Ora dobbiamo stare ancora più attenti.»

Il ritardo li aveva esposti, ma aveva anche confermato che l’ingranaggio organizzato intorno al rifugio era vivo, vigile e pronto a intervenire. E questo, paradossalmente, dava loro la certezza di essere sulla pista giusta.