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La marea del silenzio
Capitolo 20
L’odore acre del fumo sembrava essersi infilato ovunque — nei capelli, nei vestiti, persino nella pelle. Elisa fissava lo schermo del computer, mentre la voce di Ricci rimbombava nel piccolo ufficio della centrale.
«Hanno colpito con precisione chirurgica,» disse lui, indicando la mappa satellitare che lampeggiava davanti a loro. «Guarda qui: l’area ovest del porto è completamente distrutta. Ma questi due capannoni, più interni, non sono stati toccati dalle fiamme.»
Matteo si chinò in avanti, studiando le immagini. «Sono tra quelli che avevamo messo sotto sequestro ieri.»
Ricci annuì. «Sì. Ho fatto inviare una squadra per mettere tutto in sicurezza. Ma prima che arrivassero, qualcuno ha tentato di entrare. La sorveglianza ha segnalato un movimento alle quattro del mattino.»
«Un furto?» chiese Elisa.
«Più probabile un recupero,» rispose Ricci, con la voce bassa. «C’è chi sapeva esattamente dove guardare.»
Un silenzio pesante calò nella stanza. Matteo si passò una mano tra i capelli, stanco. «E quindi?»
Ricci sospirò, incrociando le braccia. «Uno dei container, quello numerato A17, conteneva dei documenti contabili parzialmente carbonizzati. La scientifica ha già estratto alcuni frammenti leggibili. E indovina un po’?»
Fece scorrere un file sullo schermo. Apparve una firma: Società San Michele S.r.l.
Elisa sentì un brivido freddo scorrere lungo la schiena.
«La società di copertura che usavano per i trasferimenti di denaro?»
Ricci annuì. «Esatto. Ma non solo. Tra i documenti c’è anche una nota interna, firmata da un certo Dott. G. Marini. Parla della gestione delle operazioni sul posto.»
Matteo si irrigidì. «Giovanni Marini… sempre lui, era saltato fuori anche nell’indagine su Maltoni.»
«Esatto,» rispose Ricci, cupo. «Lo ha fatto eliminare quando ha capito che stava per vuotare il sacco, e Marini non poteva permetterlo. Ora abbiamo la prova che era lui a tirare le fila, anche dopo la morte di Vernazza.»
Elisa chiuse la cartellina con un gesto deciso. «Allora questo cambia tutto. Se c’è la sua firma, vuol dire che, con certezza è lui che comanda. E adesso abbiamo il modo di dimostrarlo.»
Ricci li fissò con uno sguardo teso. «E forse spiega anche perché Vernazza è morto. Ma non basta. In fondo a quel container, c’era un frammento di qualcosa che non dovrebbe trovarsi lì.»
«Di cosa si tratta?» chiese Matteo.
Il procuratore aprì lentamente una cartellina e ne tirò fuori una foto: un frammento di legno antico, inciso con un simbolo familiare.
Elisa trattenne il respiro.
«Il simbolo della chiesa di Monteriva,» sussurrò.
Ricci annuì piano. «Già. E a quanto pare, il culto non è solo un’ombra del passato. È parte di tutto questo.»
L’aria del porto, ancora satura di fumo, pizzicava la gola. I nastri gialli della scientifica ondeggiavano tra i container anneriti, mentre un vento salmastro trascinava l’odore del mare e della plastica bruciata. Elisa camminava accanto a Matteo in silenzio, il taccuino in tasca e gli occhi fissi sulla zona segnata con il numero A17.
Un tecnico della scientifica li accolse accennando un saluto.
«Abbiamo trovato questo sotto una paratia deformata dal calore. Non è stato facile tirarlo fuori.»
Aprì una busta sigillata. Dentro, un frammento di carta bruciacchiato, ma ancora leggibile.
Matteo lo prese con cautela. «Un elenco di nomi…» mormorò, scorrendo il foglio con lo sguardo. «Molti di questi sono tra i dispersi che stiamo cercando.»
Elisa aggrottò la fronte. «Guarda qui. C’è un riferimento accanto a ogni nome: “Collina”, “Casa San Giuda”, “Santuario”…»
Il tecnico intervenne: «Sembra una suddivisione logistica. Forse indicazioni su dove venivano portate quelle persone.»
Matteo alzò lo sguardo, colpito da un’idea. «Santuario… Monteriva.»
Elisa annuì lentamente. «E Casa San Giuda… potrebbe essere un riferimento alla vecchia canonica di Don Luciano. Ti ricordi? È sempre stata chiusa al pubblico.»
Matteo la fissò. «Potrebbe essere lì che nascondevano o trasferivano i prigionieri.»
Un rumore improvviso li fece voltare. Due agenti trascinavano un sacco metallico fuori dal container successivo. Il capo della scientifica si avvicinò.
«C’era questo in fondo. Lo riconoscerete.»
Matteo aprì il telo con lentezza. All’interno, una piccola croce d’argento annerita dal fuoco. Sul retro, un’incisione: “D.L.”
Elisa sentì il cuore batterle forte.
«Don Luciano.»
Matteo si morse il labbro. «O qualcuno che vuole farlo sembrare colpevole.»
Lei scosse la testa, fissando la croce. «O qualcuno che lo ha usato. Ricordi cosa disse Don Galli? Che Luciano aveva accolto in parrocchia dei “fedeli” mandati da fuori, uomini che lo aiutavano a gestire le offerte e la fondazione…»
Matteo chiuse il sacco. «Offerte, o riciclaggio di denaro.»
«E i “ritiri spirituali” erano tutt’altro che preghiera,» concluse Elisa.
Rimasero in silenzio, mentre le sirene della scientifica si affievolivano in lontananza.
La verità, finalmente, iniziava a farsi strada — ma più si avvicinavano, più il buio sembrava farsi denso.
L’edificio sorgeva ai margini della pineta, dietro un muro di cinta che sembrava troppo alto per un luogo di preghiera. Il cancello, arrugginito ma chiuso con cura, riportava ancora l’insegna: Casa San Giuda – Centro di accoglienza e formazione spirituale.
Matteo fissò la targa, poi guardò Elisa. «Eccoci. È qui che finivano i nomi delle donazioni.»
Lei annuì. «E probabilmente anche le persone.»
All’interno, l’aria aveva un odore stantio di disinfettante e umidità. Le finestre del corridoio erano murate a metà, come se la luce non dovesse entrare del tutto. Le stanze, spoglie, conservavano letti metallici, armadietti numerati e porte con serrature interne. Tutto ricordava più una struttura di detenzione che un centro religioso.
Sul muro di una delle camere, Matteo trovò una fotografia incorniciata: un gruppo di volontari, tra cui Don Luciano.
«Guarda questo,» disse, porgendola a Elisa. «È lo stesso periodo in cui sono iniziate le prime sparizioni.»
Elisa osservò l’immagine, poi si accorse di un dettaglio. Sullo sfondo, dietro i sorrisi, compariva un logo stampato su una cassetta di legno: San Giuda Cooperativa Servizi.
«Una cooperativa fittizia…» mormorò. «Il canale perfetto per far passare i trasferimenti di denaro.»
Nel piccolo archivio dietro la cappella, trovarono registri di ingresso, elenchi di ospiti e schede incomplete. Alcuni nomi li conoscevano già: persone scomparse da mesi.
E accanto, annotazioni a mano: trasferimento completato – progetto rinascita.
Matteo chiuse il quaderno con forza. «Questa non era accoglienza. Era selezione. Li sceglievano, li spostavano, li vendevano.»
Elisa rimase in silenzio, poi trovò un fascicolo diverso, con la scritta Rettoria – corrispondenza riservata. All’interno, lettere firmate da Don Luciano.
Parlavano di aiuti umanitari, di “viaggi protetti”, di persone “accolte in fede e reinserite con dignità”. Ma la destinazione era sempre la stessa: La Selva o strutture affiliate all’estero.
«Don Luciano non sapeva,» disse Elisa a bassa voce. «Credeva davvero di finanziare un progetto di recupero. Le lettere sono sincere.»
«E chi glielo ha fatto credere?»
Lei sollevò lo sguardo. «Marini. E Giulio Riva. Hanno usato la chiesa come copertura perfetta.»
Un rumore di passi interruppe il silenzio. Dalla sacrestia comparve una figura anziana, lo sguardo smarrito: era Don Luciano, visibilmente provato.
«So perché siete qui,» disse piano. «Ma non immaginate cosa hanno fatto di questo posto… Io volevo solo aiutare. Poi mi hanno tolto le chiavi. Mi hanno lasciato dire messa, ma non entrare più nelle stanze di sopra.»
Elisa gli si avvicinò. «Cosa c’era sopra?»
Il prete esitò, poi indicò la scala che saliva all’ala chiusa dell’edificio.
«C’era il reparto dei pellegrini. Così lo chiamavano. Ma nessuno tornava mai indietro.»
La notte era calata da un pezzo, e l’ufficio della squadra mobile sembrava sospeso in un limbo di silenzio e neon.
Elisa scorse il volto stanco di Matteo riflesso nel vetro della finestra. Entrambi sapevano che, dopo le parole di Sorrentino, tutto era cambiato.
Sul tavolo, i fascicoli aperti formavano un mosaico di indizi che cominciavano finalmente a combaciare.
Le annotazioni di Anna Riva, gli appunti di Vernazza, i documenti comunali recuperati da Ricci: tutto sembrava parlare di un’unica cosa, ma in un linguaggio cifrato, fatto di omissioni e silenzi.
«Guarda qui.» Matteo spinse verso di lei un foglio ingiallito. «Anna scriveva che suo padre aveva notato anomalie nei fondi destinati ai restauri. Ma non cita mai il nome dei luoghi, solo sigle: C.S.G., P.M., S.M.»
«Sigle di progetti o enti ecclesiastici.» Elisa sfiorò la pagina con le dita. «E se C.S.G. non fosse un ente, ma un edificio? Qualcosa che Giulio Riva conosceva, ma non ha mai avuto il coraggio di dire apertamente?»
Matteo la guardò in silenzio, poi annuì.
«Casa San Giuda.»
Il nome restò sospeso nell’aria, pesante come una verità che da tempo aspettava di essere pronunciata.
Elisa si appoggiò alla sedia. «Anna non lo ha scritto per proteggerlo. O forse perché non voleva che chi leggesse capisse troppo presto. Aveva paura. E sapeva che suo padre era già stato minacciato.»
Sul monitor, Ricci comparve in collegamento video, con il volto cupo e la voce roca di chi non ha dormito da ore.
«Ho appena parlato con la procura. Abbiamo le conferme che cercavate: Marini figurava come consulente esterno in almeno due degli appalti per il restauro della diocesi. Ma c’è di più — Maltoni aveva tentato di fermare tutto, stava per consegnare un rapporto interno. E quello, probabilmente, gli è costato la vita.»
Matteo serrò la mascella. «Quindi Marini l’ha fatto eliminare. Per zittirlo non era stato sufficiente rinchiudere Lucia. Una follia mascherata da cura.»
«Esatto.» confermò Elisa. «E ora sappiamo anche chi ha dato il via a tutto. Giulio Riva, senza saperlo, è stato il primo a mettere le mani su quei numeri. Anna ha raccolto le prove, ma la loro stessa onestà li ha condannati.»
Un silenzio teso cadde nella stanza. Solo il ronzio del neon riempiva lo spazio tra le parole.
Matteo si voltò verso la finestra, guardando la pioggia che batteva sui vetri. «E adesso? Tutto porta a Marini. Ma se davvero i fondi dei restauri servivano per la rete delle sparizioni, significa che potrebbe esserci ancora qualcuno vivo. Forse tenuto nascosto.»
Elisa lo fissò. «Dobbiamo trovarli. Prima che qualcuno decida di far sparire anche noi.»
La pioggia aveva smesso da poco, ma l’aria era ancora pesante di umidità e l’odore della terra bagnata si mescolava a quello del vecchio legno dei corridoi. Elisa chiuse l’ultimo faldone e rimase un attimo immobile, con le mani poggiate sulla scrivania. Le dita le tremavano appena, come se il peso di quelle carte fosse più grande di quanto riuscisse a sopportare.
Matteo la osservava in silenzio. Avevano trascorso ore a leggere e ricopiare nomi, sigle, date. Gli occhi gli bruciavano, ma non era solo la stanchezza. Quelle iniziali — C.S.G., P.M., S.M. — si ripetevano in troppi documenti, sempre accanto a somme di denaro e riferimenti a lavori di restauro o trasferimenti di beni.
«È come un linguaggio in codice,» mormorò.
«O come un modo per nascondere qualcosa di molto concreto,» aggiunse Elisa, sfiorando con il pollice la firma in fondo a una pagina: A. Riva.
Era una delle ultime annotazioni di Anna. Scritta di fretta, con la penna che scivolava e si interrompeva a metà parola. “Se dovesse succedere qualcosa, chiedi di…” e poi il tratto si spegneva, sostituito da una macchia d’inchiostro.
«Chiedi di chi o di fare cosa?» sussurrò Matteo.
Elisa scosse la testa. «Forse sapeva che qualcuno l’avrebbe fermata.»
Seduto un po’ in disparte c’era un uomo anziano, con la giacca lisa e le mani segnate dalla terra: Pietro Marchi, l’ex custode della vecchia canonica. Lo avevano rintracciato grazie a una nota trovata tra le carte di Giulio Riva, un vecchio contratto d’affitto con il suo nome e un indirizzo scritto a penna sul retro. Quando Elisa e Matteo si erano presentati alla sua porta, l’uomo aveva esitato a lungo prima di accettare di parlare, poi li aveva seguiti fino all’archivio.
«Quando lavoravo lì,» disse Marchi, fissando i documenti sul tavolo, «nessuno mi spiegava mai nulla. Mi limitavo a portare i pacchi, a firmare le consegne. Ma sapevo che quelle casse non contenevano solo materiale per il restauro. C’erano volte in cui arrivavano di notte, e non venivano mai scaricate nei magazzini.»
Elisa lo guardò, in silenzio.
Un colpo secco fece sobbalzare tutti e tre. Non veniva dall’esterno, ma da uno degli armadi alle loro spalle: il legno si era contratto con l’umidità, facendo scattare la serratura di un cassetto incastrato.
Elisa si alzò lentamente, tirò il cassetto con cautela. Dentro c’era un fascio di fogli, anneriti ai bordi, e sopra, piegata in quattro, una fotografia sbiadita.
Ritraeva una stanza angusta, con pareti scrostate e una finestra sbarrata. In primo piano, su un tavolo di metallo, si intravedeva una targa: “Reparto O – Archivio Pazienti 1979”.
Sul retro, a matita, una scritta: “Non dimenticare dove tutto è cominciato.”
«Questo non è materiale dell’archivio diocesano» disse Marchi, inarcando le sopracciglia.
Elisa fissò la foto, il cuore accelerato. «Sembra la scrittura di Anna. Doveva essere lei. Ma perché parlare di pazienti?»
«Perché qualcuno,» rispose Marchi a bassa voce, «ha confuso la pietà con la sperimentazione. E non tutti ne sono usciti vivi.»
Un silenzio denso cadde nella stanza. Matteo fece un passo verso la finestra, guardando la luce che filtrava grigia tra le nuvole.
«Se quella foto è autentica,» disse piano, «allora non si tratta solo di riciclaggio. È qualcosa di molto più vecchio.»
Elisa chiuse il fascio di fogli e li infilò nella sua cartella. «Dobbiamo verificare dove si trovava questo “Reparto O”. E chi ne era responsabile.»
Marchi esitò, poi parlò con voce roca: «Potrei sapere da dove cominciare. Ma vi avverto, quello che troveremo non vi piacerà.»
Elisa si voltò verso di lui. «Ci porti lì.»
Marchi annuì, ma il suo sguardo si spense per un istante, come se sapesse già cosa li aspettava.
Fu allora che, dal corridoio, arrivò un rumore lontano. Un tonfo, seguito da un breve crepitio. Elisa uscì per prima: l’ultima lampada del corridoio tremolava, e la porta dell’archivio, che avevano chiuso dietro di loro, era ora socchiusa.
Un refolo d’aria umida le colpì il viso. Matteo si avvicinò e spinse piano l’uscio. Non c’era nessuno. Solo una scheda, caduta a terra, con il nome scritto a mano in inchiostro blu:
“Lucia Maltoni.”